Pasqua è l’odore dell’anice delle schiacce che invade la casa nei giorni che precedono la festa. Pasqua è la partenza della Processione annunciata dalle campane delle 7, puntuali nelle mattine terse così come in quelle sferzate dalla tramontana o bagnate dalla pioggia. Pasqua è il salmastro del molo della Pilarella, è il saluto rivolto al mare e ai marinai, a chi ha dedicato la propria vita al mare e a chi il mare ha preso la vita. Pasqua è attraversare il paese a passo lento, è prendersi il tempo per osservarne ogni angolo, per ricordare, scorgere volti delle persone che si uniscono al corteo, cercarsi con gli occhi e iniziare preghiere che poi restano a metà, perché i pensieri prendono il sopravvento. Pasqua è il suono familiare della banda comunale e quella buffa formula per dare l’assenso a che la musica prenda il posto della liturgia. Pasqua è la curva di via Barellai, che anticipa l’assordante fischio delle sirene dei pescherecci, dei traghetti e delle barche ormeggiate, che prima ancora che tu lo senta con le orecchie puoi sentirlo dentro al cuore. In quel fischio, è l’anima di un paese di marittimi, comandato dalle donne. Pasqua è voltarsi continuamente indietro per vedere quanto sia lunga la Processione, sentire l’orgoglio delle proprie radici, di appartenere a quello scoglio. Ed essergli legata, per sempre. Pasqua è stringersi in vestiti sempre troppo leggeri e avere i piedi freddi in scarpe aperte, ma è Pasqua, il cappotto resta nell'armadio e l’abito deve essere nuovo. Un provincialismo che ha un sapore d’altri tempi, un riverbero contemporaneo di una dignità antica, tenuta salda nelle ristrettezze e nella povertà. Pasqua è la curva di via Lambardi, lo stomaco che inizia a gorgogliare lungo la via che fu del mercato, in attesa delle uova e della cioccolata calda. Pasqua è l’imbocco di via XX settembre, quando come sospinti da una frenesia che non si riesce a trattenere i passi si fanno più svelti. Pasqua è trovarsi a correre nell'ultimo tratto di strada, è salire alla svelta le scale e percorrere più veloci che si può la navata della Chiesa per trovare il proprio posto dietro l’altare. Pasqua è sentire gli occhi che si gonfiano di lacrime prima ancora che le campane suonino col ritmo sincopato che annuncia la festa. Pasqua è la statua di Cristo risorto, portato a spalla per ore e alzato tre volte nell'ultimo, incredibile sforzo, mentre un applauso liberatorio si alza e copre persino il fragore delle campane.Cristo entra controluce in una chiesa grande, improvvisamente troppo piccola per contenere persone e l’onda di un’emozione ancestrale e recondita. Una statua di gesso e legno si trasforma così in una epifania divina. Si fa largo tra la gente, in mano una croce con la bandiera che sventola e un braccio teso al Cielo. La corona con raggi d’oro ha sostituito la corona di spine, la gioia ha preso il posto del dolore. L’epifania diventa monito, anche per chi non crede: è lì a ricordare che siamo vivi e abbiamo sempre un’altra occasione per risorgere, per rinascere, per ricominciare. A vivere, a sperare, ad amare. Quest’anno, questo rito collettivo che non si riesce a raccontare né a spiegare, ma può solo essere vissuto, mi manca in modo disperato e profondo. Ma so che si ripeterà. La banda tornerà a suonare, le persone a stringersi negli abbracci, io a voltarmi. E mai potrà essere più bello. Buona Pasqua
( Marta Coccoluto )
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