Da Tibhirine ad ‘Azeir. Dall’Algeria, passando per la Toscana alla Siria. Questo è l’itinerario che ha portato nel 2005 alcune trappiste dal Monastero di Valserena vicino Cecina a scegliere la Siria, una delle culle del monachesimo antico, per fondarvi un monastero di vita contemplativa. Nel 1996 c’era stato l’eccidio dei sette monaci trappisti a Tibhirine in Algeria, un fatto tragico verso religiosi innocenti che aveva colpito l’opinione pubblica mondiale. L’ordine cistercense nonostante l’efferatezza del delitto volle continuare l’esperienza in terra islamica e custodire l’eredità spirituale dei sette monaci. L’appello fu accolto dalle trappiste di Valserena, una comunità che avevo conosciuto e frequentato durante gli anni del Seminario e dove feci gli Esercizi spirituali prima della mia ordinazione sacerdotale nel giugno del 1984. Le monache, dopo una prima esperienza ad Aleppo scelsero di installarsi nel villaggio maronita di ‘Azeir fra Homs e Tartous al confine settentrionale tra Siria e Libano. Fino al marzo 2009, la Siria era stata una nazione fiorente e pacifica dove anche le varie componenti religiose convivevano tranquillamente. Anzi, negli anni terribili della guerra e dei massacri le differenze religiose non sono state mai un problema. In questa regione ci sono, uno accanto all’altro, villaggi cattolici maroniti, armeni, greco ortodossi, greco cattolici e villaggi mussulmani, sunniti e alawiti: la convivenza tra islamici e cristiani delle varie confessioni era normale, fatta di rispetto e dialogo sincero. Il regime di Assad aveva le sue rigidità e i suoi limiti, racconta madre Marta la priora, ma grazie ad esso era possibile tale convivenza e si viveva tranquillamente.
Con il mio amico don Franco Rapullino di Napoli (lui per la verità già altre due volte era stato a trovare le monache, anche durante il conflitto), avevo loro promesso che sarei andato anch’io in Siria a incontrare alcune di quelle monache con cui tante volte avevo pregato a Valserena. Una di loro, suor Letizia Ricci è originaria di Scansano ed è l’ultima ad essere arrivata ad ‘Azeir. A lei e alle altre monache avevo pensato di devolvere il ricavato della vendita del mio libro su santa Teresa d’Avila. Una prima parte l’avevo già consegnata in novembre, quando sr. Letizia era passata a Porto S. Stefano per raccontarci la sua esperienza. Ora restituendo la visita, potevo portare un’altra somma di denaro sia per le necessità del monastero sia per le vittime della guerra e ora dell’embargo, visto che sempre più numerose sono le persone che si rivolgono alle religiose.
Il nostro viaggio è cominciato da Beiruth, in Libano dove viene a prenderci con una vecchia e rumorosa Skoda Charbel, maronita e uomo tutto fare delle monache. Attraversare la frontiera non è uno scherzo, non abbiamo il visto d’ingresso (semplicemente perché non c’è un’ambasciata che lo rilascia) e quindi dobbiamo sottoporci ad un estenuante e continuo controllo del passaporto, rispondere ad infinite domande, rispondere a questionari scritti in arabo, attese, telefonate ai vari poliziotti superiori. Charbel per fortuna sa come muoversi, quasi tutti i militari lo conoscono e soprattutto molti poliziotti conoscono le monache. Finalmente dopo tre ore si parte. Ma il bello deve ancora venire: ogni tre, quattro chilometri posti di blocco con giovanissimi militari, dalle divise logore e soprattutto dai volti tesi e impauriti. La Siria in questo momento è piena di armi, tutti girano armati visto il rischio di incontrare mercenari allo sbando. Le sanzioni internazionali non fanno altro che alimentare le paure, il commercio illecito e il mercato nero, le vessazioni, il senso di smarrimento. Dalla frontiera al monastero impieghiamo altre due ore, attraversando villaggi dove sono chiari i segni della guerra: palazzi e case bombardate, colpi di mitraglia ovunque. Soprattutto rimango colpito dalle foto dei militari uccisi dai ribelli e affisse su grandi pannelli lungo le strade, nelle piazze e negli edifici. L’ultimo posto di blocco è a Talkalakh, da dove saliamo per una stretta e ripida strada verso il monastero. Ci accoglie una croce, la croce della fondazione, circondata da oleandri, ulivi, alberi di ogni tipo e tanti fiori. Dallo squallore della guerra e delle sue ferite, entriamo in un’oasi di pace, serenità e bellezza. Quando sono arrivate le suore la collina era brulla, incolta, con sassi e rovi ovunque. Ora è un giardino, con coltivazioni di ogni genere per il fabbisogno del monastero ma anche per gli abitanti del villaggio di ‘Azeir. Che senso ha coltivare fiori mentre intorno infuria la guerra? Il messaggio delle religiose è chiaro: proprio perché c’è la guerra è necessaria la bellezza, anche per vincere il grigio dell’odio e dell’intolleranza. Le monache escono dalla cappella: erano a pregare per noi e per il nostro viaggio. Ci abbracciamo, la priora Marta fa gli onori di casa e le presentazioni: Adriana, Marita, Mariangela, Letizia e la prima novizia, una giovane siriana. Con loro c’è anche il superiore dei trappisti delle Tre Fontane di Roma, lì da alcuni giorni per sostituire il cappellano. Dal piccolo monastero lo sguardo spazia verso le colline circostanti, incastonate tra la Siria e le montagne ancora innevate del Libano. Madre Marta ci indica il Krak des Chevaliers, l’antico castello crociato. Per due anni occupato dai jihadisti di Jabhat al Nusra, vi sgozzavano i prigionieri nella piazza d’armi e poi collocavano le teste decapitate in cima alle torri. Ci rendiamo conto quanto la collina dove sorge il monastero sia un posto strategico dal punto di vista militare, l’orizzonte è ampio e lo sguardo arriva fino al mare, verso Tartous dove era schierata la flotta russa a difesa del governo di Assad. Le monache son rimaste anche quando tutto intorno era un campo di battaglia. Sta scendendo la sera e secondo la regola monastica è l’ora del vespro. I canti e le melodie di Valserena sono state adattate alla lingua araba. La dolcezza della preghiera si confonde con i profumi del rosmarino e di altre erbe aromatiche che dall’esterno inondano la piccola cappella in pietra nera.
Rimaniamo al monastero tre giorni, stupìti di quanto le monache hanno realizzato, nonostante la guerra. Attualmente i lavori per il completamento del monastero sono fermi a causa della situazione generale e delle sanzioni economiche internazionali imposte alla Siria. Le monache sperano tanto che pian piano tutto ritorni come prima del conflitto: qui vi hanno lavorato operai cristiani maroniti, armeni, greci, ortodossi e musulmani sunniti e alawiti. Madre Marta ci spiega il senso della loro presenza e testimonianza, registro e riporto le sue parole: «E’ il rapporto personale con Dio che fa cambiare i rapporti fra le persone. E’ Dio che ci fa essere una cosa sola, ma occorre che ciascuno viva fino in fondo la sua fede. Noi preghiamo e lavoriamo i campi, abbiamo una vita semplice, e questo è un segno che la gente di qui, cristiani e musulmani, percepisce. Più di tutto apprezzano il fatto che noi restiamo qui con loro, in un momento come questo, che sembra non finire mai. La nostra presenza dà a questa gente la forza di restare, e la loro permanenza qui rafforza la nostra decisione di restare. Siamo strette in questo abbraccio».
E con un abbraccio intenso e interminabile con ciascuna delle monache, dopo aver celebrato la Messa con il calice che fu del priore di Tibhirine Christian de Chergé che custodiscono come la più preziosa delle reliquie, riprendiamo il viaggio verso Beiruth, con gli estenuanti controlli ai posti di blocco e soprattutto alla frontiera da parte di soldati di un esercito stremato e logoro come ciò che rimane delle loro divise militari.
Madre Marta da buona priora, insieme alle altre monache, ci dà la benedizione assicurando la preghiera per noi e per le nostre comunità parrocchiali, ma soprattutto insiste perché possiamo ritornare ancora altre volte in Siria e al monastero di ‘Azeir. Rispondo con un timido ma fiducioso InshAllah, se Dio vuole!
don Sandro Lusini